Il titolo del nostro intervento riprende il tema affrontato più di 30 anni fa da una psicoanalista, Luciana Nissim Momigliano; un lavoro pubblicato nel 1981 che propone un cambiamento nell’uso dello strumento principe della psicologia, cioè l’ascolto, da un ascolto sospe,oso appunto, uno stare quindi con il paziente sul chi va là, nella continua ricerca di poterlo stanare, di acciuffarlo, del pensare che non la dice tutta, a un ascoltarlo con rispe,o, facendosi condurre alla scoperta di cosa vuol dire, per lui o per lei, essere quello che è Fondamentale nell'ambito dell'ascolto terapeutico è la capacità e l'inclinazione da parte del terapeuta a “guardare il paziente con i suoi occhi, ascoltandolo con le sue orecchie e vibrando con il suo cuore” come ci ricorda Adler.
Questa forma di empatia, quando incontra determinati funzionamenti di personalità quali quelli dei maltrattanti e degli abusanti, può essere messa a dura prova dal proprio vissuto contro-transferale. L’empatia non nel suo significato estensivo che oggi la fa diventare sinonimo di simpatico e comprensivo, ma nel suo significato tecnico di strumento conoscitivo dell’interiorità, uno strumento che qualcuno me,e a disposizione di un altro che per vari motivi ne è sprovvisto, e nel suo utilizzo come tecnica terapeutica che perme,e di lavorare con le emozioni che provengono dal paziente. Le emozioni che ci arrivano come onde e le nostre reazioni emotive sono il modo più dinamico in cui arriva a noi la voce dell’altro, che mette in atto ogni strategia difensiva per impedire di conta,are lui stesso le sue parti non funzionanti. Queste strategie aUvano talvolta nel terapeuta una particolare forma di ascolto che si può definire come “sospettoso.”
Dice la Momigliano: “Mantenere un ascolto sospettoso non può far altro che interrompere la vera comunicazione in quanto il paziente non può mettersi in contatto con noi se non attraverso le sue difese” e le difese di una persona che agisce violenza e abuso su un’altra hanno tendenzialmente a che fare con la minimizzazione e la negazione. “Non la dice tutta” dicevo prima, certo che non la dice tu,a se la dicesse sarebbe capace di vedere che c’è una parte di sé che me,e in scacco e crea situazioni ingestibili. Nella psicologia della violenza tanto Eros (il mondo delle emozioni) quanto Logos (gli aspetti di razionalità l’Io) funzionano ad un livello arcaico. Queste sono le riflessioni che ci accompagnano nel nostro ascolto, quando siamo di fronte all’altro a cercare di ricostruire la dignità di essere umani per restituire dignità anche alle viUme proprio nel riconoscere quelle difese e che a,raverso queste stesse potremo provare a stabilire un incontro.
Diventa sospettoso un ascolto che si attua in un seUng poco chiaro, all'interno del quale talvolta manca una cornice definita di investimenti emotivi da parte della coppia terapeutica, da parte dell'inviante e da parte del sistema famigliare o relazionale coinvolto, nella mancanza di riconoscimento del ruolo e del lavoro in a,o, nella rincorsa di benefici secondari.
Diventa sospettoso un ascolto in cui l'acce,azione della responsabilità del reato viene data per scontata dal paziente e dal sistema famigliare in quanto già filtrata dai percorsi giudiziari intercorsi o in itinere, “ho già pagato”, vanificando il me,ersi in gioco in un processo di rielaborazione e ri-narrazione che porterebbe la coppia terapeutica a ripercorrere aspeU della propria storia e conne,erli con quello che è il significato dei propri agiti.
Il punto cruciale di un tra,amento che voglia provocare una trasformazione è quello di un contenimento riflessivo. Nel momento in cui si osservano i sentimenti, le emozioni, i pensieri e i tentativi di controllare, quando una relazione diventa intensa e i vissuti portati sono carichi di ambivalenze, quando gli impulsi sono intensi e richiedono una immediata gratificazione, è possibile evitare un comportamento distruttivo? Ma solo un onesto confronto con la propria psicologia consente di trasformare le pulsioni che altrimenti verrebbero agite in modo le,erale.
L’ascolto sospettoso è anche quello che noi stessi abbiamo sperimentato nel cercare di definirci e qualificare il nostro impegno come gruppo, come associazione che si occupa di... “Si, ma praticamente cosa fate?
Ma perché dargli pure gli psicologi?
Ma siete quasi tu,e donne e loro quasi tuU maschi. Ma pensano di essere tutti innocenti, non faranno mai un percorso psicologico se non per finta” Queste alcune critiche che ci hanno fa,o rifle,ere. Non è facile acce,are che persone che hanno commesso certi reati possano usufruire di percorsi di tra,amento, l’opinione generale che corrisponde ad una reazione è quella di bu,ar la chiave; quella di chi lavora con queste persone invece, da diverse angolature professionali, si arrischia a pensare alle radici costituzionali del sistema penitenziario che riconosce la finalità prioritaria del rieducare.
Cosa vuol dire stare in relazione e come si sta in relazione con autori di simili reati? Si puo' prescrivere una relazione? E come si crea una relazione prescri,a da una istituzione esterna che può decidere della tua libertà? Si è forse invertito l’ordine del potere? Quando la persona agiva violenza o abuso esercitava un potere prevaricante costringendo le proprie viUme ad una posizione subalterna (con tutte le dovute differenze del caso), adesso c’è un potere sovraordinato, l’ordine costituito, un rappresentante normativo e paterno che richiede che ci si fermi a rifle,ere. Forse la distinzione doverosa in questo parallelo è tra potere e responsabilità?
La responsabilità è legata a libertà e volontà. La responsabilità è definita come “la possibilità di prevedere gli effetti delle nostre azioni e di modificarle o correggerle in base a tali previsioni” (Borgna 2016 Einaudi). Ancora Galimberti articola il conce,o sostenendo: la responsabilità come consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni che consente di modulare le proprie scelte, che non può non avere nella sua premessa la libertà intesa come assenza di condizioni o di impedimenti, e come capacità di determinarsi secondo scelte autonome orientate a conseguire finalità dotate di senso.
Quindi la responsabilità sembra essere legata a filo doppio al conce,o di libertà, qui ci troviamo però in un contesto di restrizione della libertà, possono valere le stesse premesse? La cornice del nostro lavoro vede due protagonisti: il terapeuta e l’autore del reato di violenza corresponsabili nella costituzione di un contra,o e nella articolazione di un tra,amento con fini condivisi. La promozione di revisione ed affrancamento dal reato può prescindere dai criteri di volontarietà e libertà? Quindi l’accesso al tra9amento deve essere offerto ma volontariamente scelto dall’interessato? E azzardiamo ancora di più, la transazione economica può configurarsi per il reo, anche simbolicamente, come a9o di riconoscimento e riparatorio richiamando entrambi gli a9ori alle proprie responsabilità? L’accesso ad un tra,amento specialis/co può essere onere da ascriversi ai cos/ sociali o azione riabilita/va a carico del reo? Me@amo in campo queste temaBche aperte che interrogano tu@ gli enB territoriali che offrono dei servizi in tale contesto. La libertà di cura, ovvero la possibilità da parte della persona di recuperare quelle par/ adulte di sé che lo inducano a scegliere il percorso di tra,amento e di assumersene l'intera responsabilità sia emo/va che economica a,enuando l'onnipotenza che spesso è alla base degli agi/ violen/ e riportandola su un piano di realtà.
La nostra associazione ha definito nel proprio statuto che le sue aUvità di promozione sociale sono di contrasto alla violenza nelle relazioni quindi non solo indicata come violenza di genere, questo ci ha procurato non poche ques/oni riguardo alla nostra natura o per dirla più volgarmente sul “da che parte state?”. Le sta/s/che dicono che la percentuale di donne coinvolte in ques/ /pi di rea/ è del 10%, alcuni riferiscono il 5%. La legislazione del nostro paese ha una storia di soli 30 anni rispe,o alla tutela della donna nel matrimonio e come viUma di rea/ di violenza sessuale. Anche dal punto di vista delle riflessioni socio- psicologiche è da circa metà del ‘900, quindi 70 anni che la violenza, specificatamene quella sessuale è riconosciuta come un problema degli uomini e non rientra nella caccia alle streghe. Ancora oggi è u/lizzata come metodo di terrore in guerra. Ma questo non ci esime dalla necessità, almeno per noi psicologi, di osservare il fenomeno nei suoi aspeU dinamici che coinvolgono aspeU del femminile e del maschile che abitano in ogni singolarità con cui veniamo a conta,o, a,raverso la sofferenza inferta ad una viUma, a,raverso gli spazi di ambiguità che lasciano brecce, a,raverso le ambivalenze, a,raverso l’incontro con il male.
Ecco il male, questo si che è un argomento che desta sospe,o, un argomento che sembra semplice finchè si crede che non ci riguardi, finché si crede che il male sia solo privaBo boni, un argomento che sconfina nel
religioso nel metafisico; Jung dice che: ”La messa a confronto con la parte oscura della personalità ... ha la stessa importanza che il problema del peccato ha per la Chiesa” , ora i nostri disposi/vi culturali non stanno più tenendo, non sono più così solidi da perme,ere una separazione ne,a tra le cose, qui c’è il bene qui c’è il male. Anche le is/tuzioni totali, come il carcere, si stanno ponendo finalità diverse rispe,o alla sola sicurezza e queste finalità (rieducazione-reinserimento nella società) richiedono, per il loro raggiungimento, non solo che la violenza non sia agita, e meno male che è così, ma che sia anche conosciuta, perché quello che abbiamo nell’inconscio non muore, rimane lì, e può emergere in qualunque momento, ma emerge in un altro modo. Emerge con la violenza dei contenu/ rimossi, e coi contenu/ rimossi noi abbiamo pochi margini di tra,a/va, mentre se lo guardiamo, il nostro male, ci possiamo tra,are, se non lo guardiamo quando esplode la coscienza esplode a,raverso dei sintomi, per esempio dei comportamen/ inacce,abili, e allora non abbiamo margini di manovra perché di fronte ai sintomi noi siamo in balia di qualche cosa che non possiamo controllare.
Affrontare pazientemente gli oppos/ in lo,a.
Jung stesso raccomanda che nell’avvicinarsi all’abisso bisogna tenersi ben saldi al bene
“Ma allora io sono un mostro? Gli altri che erano in carcere con me avevano fa,o cose peggiori.” ecco come ci si difende dal male, se io sono colpevole, ma trovo un altro un po’ più colpevole di me, se io sono caUvo, ma trovo un altro un po’ più caUvo di me, se io mi sento emarginato, ma io riesco a emarginare qualcuno a mia volta, se mi disprezzano ma io riesco a disprezzare qualcuno ancora di più, io sto un po’ meglio. “È importante riconoscere le nostre ombre nere, perché questo abba,e ver/calmente il delirio di onnipotenza che ci fa credere che possiamo essere perfeU, non lo ammeUamo mai ma poi in fondo la fantasia è questa. E incoraggia invece l’acce,azione di una realtà che è per sua natura contraddi,oria, noi siamo portatori di bene e di male impastato insieme.” Come ci ricorda anche Marina Valcarenghi, psicoanalista che ha portato la psicoanalisi in carcere.
La viUma porta su di sé la proiezione simultanea di ciò che si desidera e di ciò che si odia, l’ogge,o di un impulso a possedere, come nel furto, e di un impulso a distruggere, come in un’aggressione. Amore e odio, piu,osto che essere due sen/men/ oppos/, forse sono più due facce della stessa medaglia, qualità dinamiche entro la stessa passione, Eros per dirla in termini mitologici; quello a cui possono essere considerate maggiormente in contrasto è forse invece la razionalità.
“Ne vale la pena...” questa è una frase che mi è capitato di u/lizzare in un colloquio di conoscenza con un utente che ha una prescrizione di terapia. La cito perché, avendo portato il caso in supervisione, mi era stata so,olineato l’uso di questa frase all’interno di un contesto di non libertà, di pena appunto. E la cito per semplificare quanto sia fondamentale e importante un lavoro di sostegno alla ricerca di una mo/vazione per poter intraprendere un percorso psicologico (un po’ come si fa con gli adolescen/), lavorare perché si cos/tuisca un Io Cooperante, come diceva Fenichel, proprio con chi ha scontato anni in carcere e ri/ene di aver pagato i propri debi/. Ne vale la pena con/nuare fuori dal carcere a rifle,ere su quello che è successo anni fa? Ne vale la pena rime,ere in discussione i nuovi equilibri, ora che magari le relazioni preceden/ sono finite e si ha una fidanzata nuova, un marito nuovo? Per che cosa vale la pena? Perché ci sono dei figli e potrebbe essere un’opportunità ricostruire delle relazioni con loro? Perché c’è una nuova compagna e si potrebbe pensare a non rifare gli stessi errori? “Ne vale la pena?” è la domanda che poniamo e che si pongono le persone che accedono all’associazione, ritrovando in questa riflessione uno spazio di libertà nella prescrizione.
Chiudo con la frase de,a da una delle persone che s/amo seguendo, forse una delle situazioni più complesse e ambigue che ci interrogano molto su ques/ aspeU della libertà/obbligatorietà, sospe,o/ rispe,o, res/tuzione di dignità alle viUme/ricerca della propria dignità: “Il carcere non risarcisce le viUme, non c’è risarcimento per le viUme, il carcere che io ho fa,o non darà mai sollievo alle viUme, perché quello che ho fa,o non si cancella, il carcere (non solo la detenzione ma inteso come tu,a una serie di limitazioni, prescrizioni e obblighi) serve ai condanna/”
J. Hillman so,olinea che “Il gelido fiume S/ge (dal greco Stygéo cioè odiare) è il fiume sulle cui acque gli dei pronunciano i loro giuramen/, soUntendendo che l’odio svolge una parte essenziale nell’ordine universale delle cose. Le nostre più pure e più sante credenze poggiano su basi oscure e profonde diceva Jung. I figli di S/ge sono (Zéllus) lo Zelo, (Nike) la Vi,oria, ( Bia) la Forza e (Cratos) il Potere. Il gelido odio della loro madre si converte nei figli in quei traU implacabili che abbiamo finito per acce,are come virtù” Lo Zelo, la Vi,oria, la Forza e il Potere adopera/ contro una viUma sono tu,e al servizio di un fallimentare tenta/vo di controllo.
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